Tra i meriti di Massimiliano Parente si annovera anche quello di aver fatto scrivere a Vittorio Feltri un gran bell'articolo.
Non ho mai recensito un libro e non intendo cominciare ora a scrivere
bischerate. Ne ho scritte già tante involontariamente parlando del più e
del meno, talvolta anche del per e del diviso. Quando ero un ragazzo,
il giornale al quale collaboravo (per il piacere di vedere la mia firma
sotto gli articoletti) mi mandava al cinema per criticare, si fa per
dire, le prime visioni. Mi è bastata quell’esperienza atroce. Da allora
non mi sono più occupato di opere d’arte, vere o presunte, di alcun
genere. Non mi sento portato. Non m’importa di nulla se non della
cronaca. Per cui ho cominciato a leggere L’inumano di
Massimiliano Parente (Mondadori) senza propormi di riferirne su queste
colonne, ma solo perché sono curioso e do un’occhiata a quasi tutti i
libri che mi capitano fra le mani. Li sfoglio di giorno, tra un lavoro e
l’altro, e la sera sul divano in attesa del sonno.
Quello di
Parente m’incuriosiva di più perché conosco lui e lo apprezzo per i
pezzi pubblicati sul Giornale. Mi garbano le sue idee eccentriche e come
le esprime. È talmente bravo che non ha neppure la necessità di darsi
delle arie. È spassoso, dissacrante, nemico del banale.
Confesso tuttavia che le prime pagine de L’inumano
mi hanno deluso. Speravo che il suo non fosse un romanzo. Invece ho
scoperto che lo è. E ciò minacciava di scoraggiarmi dal proseguire nella
lettura. Alla mia età, dopo aver letto molti classici e moltissime
boiate che ne rifacevano il verso, non si ha voglia di dialoghi
improbabili e scontate descrizioni ambientali. Come diceva Leo
Longanesi, chissenefrega di apprendere che la signora si alzò dalla
poltrona, si recò alla finestra, appoggiò pensierosa la fronte al vetro,
guardò giù in strada, osservò il tram sbucare dalla nebbia e fu pervasa
dalla malinconia. Ecco, anch’io me ne frego dei tram e soprattutto
delle donne malinconiche. Ho già le mie tristezze. I romanzieri la
tengono lunga per preparare una battuta folgorante, se ne hanno una.
Perché non dare subito la battuta e cancellare il resto, che annoia?
Parente
però è uno scrittore speciale. Non schiaccia l’acqua nel mortaio. Forse
ha adottato la formula narrativa per dare ordine agli argomenti che gli
stavano a cuore. Poteva farne a meno. Il suo pensiero spicca e, per
farsi notare, non avrebbe bisogno di cornice, di solito utile per dare
valore a ciò che ne ha poco.
Massimiliano seduce perché è un
sublime bastardo, crudele e spietato, talvolta cinico. Non sarò mai
all’altezza della sua capacità di resistere alla tentazione
dell’ipocrisia. Sarebbe un grande chirurgo dell’anima se l’anima non
fosse un’invenzione ingegnosa di chi è senza ingegno e non si rassegna a
essere un segmento sospeso nel vuoto. Il suo bisturi comunque fa male
perché toglie dai cervelli la zavorra che li imbottisce di illusioni:
l’immortalità, la resurrezione, il paradiso.
Parente compatisce
l’umanità, ma non l’assolve perché essa non fa nulla per uscire dalle
favole in cui si è rifugiata ingannando se stessa sul significato della
vita. Che non ha significato, e questo genera disperazione e depressione
in chi non accetta l’evidenza: l’uomo è una massa di cellule. Quando
vanno in disfacimento, e prima o poi ci vanno, finisce anche lui.
Tutto
questo non ha senso, per cui ciascuno ne trova uno, e chi non vuole
fare la fatica di trovarlo ne piglia uno a caso, quello che preferisce,
oppure accetta quello ricevuto in eredità dai genitori. La fede spesso
si tramanda, come le tradizioni. Pur di non pensare, c’è gente che pensa
a cosa succederà dopo la morte. E si consola immaginando l’aldilà tale
quale lo spot televisivo del caffè: nuvole-sofà e San Pietro con tunica e
barba bianche.
La grandezza di Massimiliano Parente sta nella
capacità di denudare i suoi simili e di renderli ridicoli. Siamo tutti
un po’ ridicoli coi nostri perbenismi, cui ultimamente abbiamo aggiunto
il politicamente corretto, la tendenza a indignarci e a reclamare
rispetto: per l’ambiente, gli animali (che però arrostiamo), la donna,
gli omosessuali, i deboli, i bambini, i vecchi. Parole, parole. Cui non
corrispondono mai o raramente i comportamenti, i fatti. Ci accontentiamo
di apparire sensibili e saggi; quanto a esserlo, marameo.
Se
nulla ha un senso, Parente uno ne ha: quello dell’umorismo. Che lo aiuta
a dirci con lucidità e amaro divertimento ciò che avevamo intuito, ma
che ci sembrava brutto dire finanche a noi stessi, perché disturba
scoprirsi come si è: egoisti e vanesi. L’umanità fa schifo perché
fa parte della natura, è natura essa stessa, e la natura, almeno quella
che ci è consentito osservare da vicino, è un tritacarne dove i
sentimenti non esistono. Il microcosmo riflette le stesse schifezze che
regnano nel macrocosmo. Se fosse vero che il mondo è stato progettato da
un ente superiore, bisognerebbe concludere che è un capolavoro di
crudeltà, una gigantesca presa in giro, come il romanzo che il
protagonista de L’inumano afferma di aver scritto e che, invece, non ha nemmeno cominciato a scrivere.
Le
pagine di Massimiliano hanno il pregio di farti sentire un simpatico
cretino che accetta, senza porsi il problema di un rifiuto, ogni
conformismo, i sistemi sociali, le etichette, le convenzioni e le forme.
Il nostro abito mentale è una stratificazione di bugie pietose che ci
raccontiamo l’un l’altro senza renderci conto di complicarci la vita,
che desideriamo eterna malgrado sia insopportabile, perché così ce la
costruiamo giorno dopo giorno, sognando che il domani sia migliore di
oggi. Ma tutte queste sono faccende secondarie per Parente. Lui le
«frequenta» da sempre e si sollazza a spiattellarle al lettore,
presumendo di scandalizzarlo.
Il risultato è diverso: una volta superato lo stupore, chi legge L’inumano,
dopo aver preso dimestichezza con una scrittura scevra di compiacimenti
stilistici (tipici dei tromboni amati dal pubblico affascinato dalla
loro prosopopea vanitosa), si diletta fino al riso. Ride di se stesso. E
allora può dirsi salvo dall’idiozia dell’essere.
Vittorio Feltri - Il Giornale 28/03/2012